IL MARCHIO NEL PALLONE

IL MARCHIO NEL PALLONE

11/10/2018

All’inizio fu la Nike, che grazie alla popolarità di Micheal “Air” Jordan creò uno dei marchi sportivi più famosi e longevi della storia: la sagoma del giocatore che salta per effettuare la sua inconfondibile schiacciata.

Da allora, il mercato dei prodotti sportivi si è allargato a dismisura e ricorrere a un testimonial famoso è divenuto uno strumento consueto per le società del settore.

Oggi però si assiste ad un fenomeno ulteriore e diverso: gli stessi campioni sportivi, consapevoli del valore della propria immagine, cercano di “monetizzare” la loro fama tramite la creazione di brand che vengono apposti su capi di abbigliamento, bevande energetiche, ma anche profumi, occhiali, orologi e quant’altro. Gli sportivi diventano imprenditori di sé stessi, e con lungimiranza registrano propri marchi per poi siglare accordi di sfruttamento economico ed abbinamento con i più importanti brand del settore.

È noto a tutti quanti milioni d’euro valga il marchio CR7, che Cristiano Ronaldo ha registrato nelle più diseparate categorie merceologiche.

Si hanno casi di giocatori che hanno pensato di sfruttare la loro immagine in maniera ancora più originale, mettendo in forma grafica la propria esultanza e registrandola come marchio: Gareth Bale ha creato un logo con le mani a forma di cuore con all’interno il n. della sua maglia, l’11; o ancora Usain Bolt ha registrato sia il suo nome che la sagoma della sua tipica esultanza, il “Lighting bolt”.

Ma anche sportivi più giovani e, per ora, meno famosi, consapevoli di quanto avere un segno distintivo sia importante, si premuniscono e registrano marchi associati alla loro immagine: ad esempio Jesse Lingard che ha messo nero su bianco il gesto che fa quando segna un gol, portando le mani al volto con le dita a formare le sue iniziali, e registrandolo come marchio.

Restando nel mondo dello sport, abbiamo un eclatante esempio di società che ha scommesso e vinto sulla propria immagine: la Juventus, che lo scorso anno ha abbondonato il suo secolare ovale, sostituito da un simbolo che mette in risalto la J e i colori bianco e nero, escludendo ogni riferimento alla città di Torino, prima presente nel simbolo del club tramite il toro. Questa scelta fu aspramente criticata da molti tifosi, ma a quasi due anni di distanza la doppia J è diventata ormai talmente famigliare da dare l’impressione alla stragrande maggioranza dei tifosi di essere sempre stata lì. Scegliere un’immagine moderna, slegata dalla tradizione, facilmente leggibile da tutti, senza barriere linguistiche o culturali, al di là dei campanilismi sportivi, si è rivelata una scelta azzeccata, a dimostrazione che l’immagine di un’azienda, di qualunque settore, è un concetto vivo, fluido, che può essere soggetta a cambiamenti anche radicali, purché seguita da un’accorta strategia di marketing.

Concetti questi che non valgono solo per i grandi campioni o le grandi società: distinguersi dagli altri, creare un’immagine accattivante per il proprio pubblico di riferimento, registrare i propri marchi fa parte di una strategia il cui fine è comune a tutti, grandi e piccoli, ossia vendere quanto più e meglio possibile i propri prodotti o servizi.